venerdì 25 maggio 2018

La figlia di scorta - dicembre 2017
Sono uscita dall'ufficio sotto una pioggia battente.
Finalmente è finita anche questa giornata, come se fosse un sollievo il tempo ormai passato dimenticando che non tornerà più, e non avrò altre occasioni per impiegarlo in qualcosa di più piacevole per me stessa. Ma tant'è, è il significato del verbo lavorare.
Apro il portone di casa e mi ritrovo davanti mamma e papà, che invece stanno uscendo.
In un attimo di smarrimento mi domando se sono nel posto giusto, se è proprio casa mia insomma, o se è successo qualcosa. Il perché li trovo lì, sulle scale, con le loro difficoltà a scendere i gradini. Poi ricordo lo studio del dentista al piano rialzato.
"Tutto bene?" - chiedo.
"Ma sì" - risponde mio padre.
"Ah già, il dentista" - aggiungo per riempire il silenzio mentre mia madre sorride.
Non ho molto altro da dire, tengo la porta aperta mentre auguro loro buona serata "e ci vediamo domani a pranzo".
Salgo in casa, tolgo la giacca e le scarpe, do una grattatina sulla testa del gatto e solo allora penso che avrei potuto chiedergli di salire per un caffè, per salutare il gatto, per vedere la casa nella quale abito da cinque anni.
Ma non l'ho fatto, non avrebbero comunque accettato di farsi tre piani di scale.
E mi ritrovo nella solita routine serale.

La conversazione non è mai stato il punto di forza della mia famiglia. Beh no, non è del tutto vero. Tra me e mia sorella c'è sempre stata trasparenza, e con mia madre ci si raccontava e confrontava.
Noi tre facevamo abbastanza squadra. Facevamo, ora non più.

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