Su Buzzati
Ventinove anni e chilometri d’inchiostro snodati con pazienza dalla carta, sotto l’ombra di buon Jazz.
Pensi quasi di essere al sicuro. Stai al sicuro con un libro tra le mani, in un tempo che è una corsa ad immagini da rabbrividire ed emozioni sempre troppo forti. In un tempo dove ogni senso deve stare allo scoperto. Con un libro tra le mani sei al sicuro.
O così credi. Finchè leggi un racconto di Buzzati.
“Mai letto niente di Buzzati…”, “Leggilo, please. I racconti soprattutto. Ti perdi qualcosa”.
Ed è vero. Perdi qualcosa se lo ignori e se lo leggi ti perdi nelle emozioni che ti dà. E ti perdi nelle disserzioni della critica sulla tecnica narrativa usata dall’autore e ti accigli cercando di capire.
Tutto vero e lo sai bene.
Ma non è solo la tecnica, non è solo la superba conoscenza delle parole, non è solo quel linguaggio semplice e lineare. Quello che ti arriva quando di Buzzati leggi anche un solo unico racconto, non sai bene che cos’è, ma è.
Si fa strada entrando dai tuoi occhi, scarta in basso dribblando il cervello ed arriva sapientemente ai nervi.
E ci rimane.
Continui a leggere e non vorresti, perché sei tutt’altro che al sicuro.
E sei fottuto e innamorato. Di quella roba lì.